Fulvio Colucci
BOSCO DI SANTANTUONO (MOTTOLA) – Il tratturello martinese è un rivolo di pietra che sale lentamente la collina. Acquattato come una serpe dietro il guard rail, sembra il letto rinsecchito di un fiume. Mentre lambisce di sbieco il tornante fra Mottola e Martina Franca ti chiedi se non sia proprio l’erba, come una magica linfa, a rianimarne la storia di antica strada romana divenuta sentiero dei pastori. Su quella pista di bava verde, ridotta a reperto fossile, le greggi calabre consumavano l’ultimo miglio, nell’ascesa da San Basilio. Cinque ore di cammino prima che il bosco di Santantuono ingoiasse tutto nella quiete di un tempo sospeso.
Salivano, i pastori, che ottobre era spirato da un pezzo e su di loro si spalancava l’inverno. Le foglie secche ricoprivano i sentieri invasi dall’odor di origano che non andava in letargo. A maggio, col fiorire del ciliegio, quei pastori sarebbero tornati ai loro stazzi. Storie dimenticate. Storie di transumanza. «Me li ricordo, certo che me li ricordo. Con le greggi arrivavano dalla Lucania o dalla Sila. Dormivano all’addiaccio, sotto la neve, coperti da pelli di vacca. Oppure giù alla lamia di Sant’Antonio: in una casetta di 15 metri quadrati vicino alla grotta, con i muri a secco, la tettoia, il pozzo». Giovanni rievoca le notti quiete, gelide e terse, rischiarate da una luna ineffabile: «Intorno al fuoco i pastori giacevano sfatti e muti. Nelle capriole di fumo, nel fuoco, cercavano la casa». La casa di Giovanni resta il bosco di Santantuono: «Da mezzo secolo sono qui con i miei animali». Ed ora che l’Amministrazione comunale ha deciso la riapertura – puntando sul pascolo anche come misura di sicurezza per tenere pulito l’habitat e prevenire gli incendi – i pastori di Mottola riprendono l’antico cammino. Partivano le mandrie lungo l’asse viario che profetizzava la Bradanico-Salentina, la superstrada che non c’è. Classificato come «via storica» dalla Regione Puglia, il tratturello finisce qui, al bosco di Santantuono, oggi zona protetta dal Comune. E’ lo stesso sindaco Giovanni Quero a ricordare che «percorrendo il tratturello si arriva a Martina, attraversando la Murgia tarantina». Radici, identità comune: la pietra e il sangue.
C’erano cinghiali a Santantuono, decimati alla fine degli anni ‘90 dal barbarico rito del bracconaggio. Ora la Guardia Forestale programma i cosiddetti «lanci» (per esempio di vipere): specie protette che ripopoleranno il bosco. E la vedi, qui, la prepotenza della natura che non conosce regola e qualità. La natura offesa dagli incendi, dalle devastazioni. La natura che si rigenera, incontenibile. «Guarda gli alberi – dice all’improvviso Giovanni – sono come noi. Di padre in figlio. Muore il nonno e nasce il nipote. Il bosco non finisce». Questa idea la trovi nelle piccole cose. Nelle storie semplici. Storie di funghi velenosi, dall’acre color zafferano, che ribollono lungo i tronchi, divorandoli. Storie di asparagi rigogliosi. Il bosco è rimasto, quasi, com’era. Perciò scrostare l’antico racconto dei pastori che partivano da Potenza e impiegavano cinque giorni, i pastori che a fine novembre salivano al pascolo nel bosco di Santantuono, è come recitare un canto, come raccontare una piccola Odissea.
«Tutto è cambiato – riprende Giovanni mentre sbuccia un fungo, buono, per spiegarci i segreti del bosco – i giovani non si accostano più alla pastorizia. Nel bosco bisogna nascerci, ma chi è nato qui oggi va via». C’è una sorta di pudore nel raccontare la fatica: «In estate ci svegliamo alle 4 e andiamo a dormire tardissimo: mungitura, foraggio, semina. Le vacche si autogovernano, sono organizzatissime; arrivano alle 10, 30 del mattino, vanno via alle 17. In estate, invece, pascolano di notte». Giovanni allarga le braccia quasi a tracciare un confine ideale. Un confine da varcare con la memoria e l’immaginazione: «La zona è quella che confina con Monte Sant’Elia, territorio di Massafra e con Martina Franca. Più a valle si incrociano le terre di Noci e Alberobello». I pastori al nostro fianco, lungo il sentiero, ci insegnano a distinguere colori e suoni. Ma i muggiti, il profumo d’autunno, le foglie secche, il bosco divorato pezzo dopo pezzo, anno dopo anno, che pure resiste e rende gli odori persi quasi fossero dei versi dimenticati, si fondono in un’unica cosa per poi espoldere in mille frammenti di poesia vagabonda: l’origano che si fonde al biancospino. I lecci, le querce e gli alberi di ghiande, i ciclamini timidi sui bordi del sottobosco, le margherite sorridenti.
Al tuono il pastore si ferma e calcola: «Abbiamo mezz’ora», dice e riparte: «La pioggia non ci sorprenderà». Ma avremmo dovuto fidarci di pecore e vacche, accorse preoccupate e dubbiose. A Giovanni basta qualche gesto per spezzare il timoroso assedio degli animali e rimettere ordine, riannodando ancora i fili dei ricordi: «La transumanza – ripete – aiutava a tener pulito il bosco. Gli incendi non erano mai una minaccia incombente. A giugno, quando i pastori lasciavano Santantuono, non c’era un filo d’erba secca».
Piove. Improvvisamente. La terra sembra un frutto appena sbucciato.
Gazzetta del Mezzogiorno, 17 ottobre 2006