Le mie primarie. Lettera a un partito mai nato (Gazzetta del Mezzogiorno del 14 ottobre del 2007)

Il 14 ottobre del 2007 scrissi uno degli ultimi articoli di cronaca politica seguendo le primarie costitutive del Pd. Era la vigila del primo voto del nuovo partito, vinse Veltroni. A rileggere il testo, cambiando i protagonisti locali e nazionali, nulla o quasi sembra mutato nell’azione degli uomini, nelle liturgie rituali che accompagnano l’esercizio del potere.

Semplice la ragione, semplice la profetica equazione: il Pd non ha mai fatto i conti con la sua storia, con le parole scomode di chi avrebbe dovuto essere, e non è stato, il suo riferimento morale, culturale, politico; il suo patrimonio ereditario tramandato dal sangue e dall’inchiostro: Aldo Moro e Italo Calvino.

Calvino, Moro e il Partito democratico

Fulvio Colucci

Questa sera sapremo cosa sarà il Partito democratico. Per ora, a Taranto, abbiamo solo un bambino mai nato. Ci riferiamo all’esperimento abortito nello scorso giugno: la candidatura di Gianni Florido al Comune. Bocciata dagli elettori malgrado i D’Alema, i Fassino e i Letta (tenete a mente questo nome, potrebbe tornare utile) giurassero e spergiurassero: «Florido è il candidato sindaco del Partito democratico». Per uno strano intreccio del fato, stasera i due arcinemici dell’ultima campagna elettorale, Gianni Florido e Gaetano Carrozzo, saranno lì a tifare, insieme, per i loro candidati alle segreterie nazionale e regionale: Walter Veltroni e Michele Emiliano. Ci sta in una fase politica così tumultuosa da ricordare i venti d’autunno e le foglie morte. Secondo Rosy Bindi e Antonio Gaglione, anche loro candidati alle segreterie nazionale e regionale del Pd, è già un successo il fatto di non votare il candidato unico alle primarie. Effettivamente, che partito «democratico» sarebbe stato? Insisitiamo col dire che il «nuovo soggetto politico», come viene pomposamente chiamato, alimenta scetticismi. Almeno qui da noi dove il centrosinistra sconta la lacerante divisione delle elezioni. Il Pd ha dato prova di non funzionare al Comune. Chi ricorderà, oggi nell’urna, la querelle sulle vicepresidenze e sulle commissioni? Ds, Margherita e lista Florido a rincorrersi e accapigliarsi, lanciandosi accuse di fuoco. Mah… E’ vero, nel dibattito elettorale per il Partito democratico si è parlato di tutto tranne che dei problemi reali della città (e del Paese). E a quella grande occasione che era, che è, il voto dei sedicenni, chi ci ha pensato?


Così vorremmo lasciare a candidati ed elettori un promemoria. Ci aiuta il romanzo di Italo Calvino La giornata di uno scrutatore scritto nel 1964. E’ un libro quasi autobiografico. Il grande scrittore racconta l’esperienza di un intellettuale comunista che va a fare lo scrutatore alla Piccola Casa della Divina Provvidenza di Torino meglio conosciuta come «Cottolengo», l’ospedale dove sono ricoverati migliaia di disabili fisici e mentali. Il protagonista vuole impedire il voto delle persone incapaci, «sollecitate» dai religiosi a scegliere la Dc. Ma ad un certo punto deve arrendersi. Perché sulle ragioni ideologiche prevale la visione indicibile del reale: la sofferenza umana. E lì, capendo anche il ruolo fondamentale dell’assistenza offerta dalle suore ai malati Calvino cede al disincanto. L’autore scopre che la politica, di fronte all’uomo, non basta. E che di fronte alla complessità dell’individuo, di fronte al mistero dell’origine e della sofferenza, non bastano la società, le leggi. Solo tornando all’uomo, alla natura, all’amore, linfa che corre nelle più inaccessibili profondità umane, è possibile riprendere il filo, leggere il mondo, risolvere i problemi. Trovare, finalmente, conforto all’inquietudine di vivere, allo stesso stare al mondo. Rispondere al «che fare?», assillo di ogni politico vero la cui analisi e le cui capacità di confronto, dialogo e proposta, non siano oscurate dal potere della casta o dalla brama di raggiungere il potere saltando qualche gradino col sorriso dell’ottimista «dall’aria vagamente socialista» stampato in faccia.


Calvino, il comunista Calvino, dalla parte degli infedeli: nel seggio dove si votava, per amore o per forza, Dc. Il quadro perfetto di quella che è stata la genesi vera del Partito democratico in Italia. Un partito che vuol unire la tradizione cattolica e quella socialista, per lungo tempo in conflitto tra loro e sempre alternative. Ma siamo nell’era post-ideologica e si deve provare ad avvicinare i due estremi. Nel disegno profetico di Aldo Moro, basato sul principio dell’alternanza di governo (non di potere), socialisti e cattolici avrebbero potuto rendere finalmente l’Italia un Paese moderno, un Paese normale. Ma se l’ideologia non c’è più su cosa si fonderà il patrimonio comune del Pd? Aspettando di vedere quanto il Partito democratico sarà capace di rigenerare la politica (in particolare a Taranto) crediamo, non a caso, che l’amore raccontato da Calvino e il disegno, la profezia, di Moro siano le autentiche radici dalle quali possa trarre nutrimento non solo il nuovo partito, ma soprattutto la sua base. Che poi Calvino e Moro dicessero la stessa cosa appare lampante. Non c’è molto altro a cui aggrapparsi di questi tempi. E bene fa chi dice che a Taranto il Pd avrà un senso se ricomporrà i conflitti politici esplosi alle elezioni comunali. Anche quello potrebbe essere un «miracolo d’amore».


Insomma, il Pd o sarà Calvino e Moro o non sarà. E se così non sarà, cosa purtroppo possibile prevalendo ancora la logica della casta, sul Paese, sulla città, calerà il buio. Compiendosi pienamente l’altra, terribile, profezia di Moro gridata contro la politica (e contro gli italiani). Scritta dalla prigione del popolo delle br, dal carcere costruito con le sbarre delle opposte ideologie, senza che nessuno volesse ascoltarla: «Il mio sangue ricadrà su di loro».

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