Patti Smith, la poesia sotto la Croce del Sud

Fulvio Colucci

Patti Smith lo sapeva: Taranto era un appuntamento col destino. Lì in
fondo al Sud, in un punto di luce chiamato Medimex da lei trasformato
nel “recinto sacro” del rock and roll. L’ultima notte di concerti, l’ultima irripetibile notte, domenica scorsa alla rotonda del lungomare.


Patti Smith lo sapeva: darsi appuntamento col destino non è uno
scherzo. L’attesa può durare una vita e non adempiersi. Come per un
poeta in esilio. O sciogliersi, infine, quando il tempo, come un fiume
lento e inesorabile, ha plasmato a lungo la tua vita, la tua feconda
energia musicale votata a giustizia e libertà, spurgandola da certa
rabbia, addolcendone i tratti, mitigandoli in quei brevi, intensi,
gesti di saluto rivolti ieri dal palco a qualche migliaio di
spettatori.


Gesti di saluto ripetuti, come le parole giustizia, libertà, radici,
eredità, poesia, passioni, ricostruzione; Smith le ha donate al
pubblico accorso da tutto il Mezzogiorno. E tutti hanno potuto
leggere, nella notte in cui il Medimex si congedava, un manifesto
politico-musicale dedicato a Taranto con parole semplici che solo la
poesia sa donare. Taranto città iscritta nel destino di Patti Smith,
nel suo sangue e nelle sue ossa. Perché?


La poetessa si è cucita addosso quest’isola di ruggine e blu, se l’è
cucita dentro, al di là delle magliette regalatele ed esibite con
fierezza (sventolata quella del movimento Giustizia per Taranto,
indossata la casacca della squadra di calcio con il numero 10 del
fuoriclasse il cui nome non puoi dimenticare).
Nel librare mani e braccia dentro la nera notte tarantina, Smith ha
trasformato i suoi continui, ingenui, stupefatti saluti al pubblico in
un gesto identitario: un battito d’ali, scandito in musica,
dell’immenso gabbiano rock quale lei è: «Sentitela dentro la vostra
fottuta libertà!» ha esclamato alla fine di “People who died” appello
allo spirito dei poeti beat che, declinato nel caldo feroce e scosso
di questa  latitudine meridiana, ha ricordato certi versi di Rocco
Scotellaro, il poeta contadino, o di Pasquale Pinto, il poeta operaio.
Versi che ancora bruciano dentro la carne viva del Mezzogiorno. Arderà
il grido della poetessa sulla pelle di Taranto come una staffilata di
fiamma: “Sentitela dentro la vostra fottuta libertà!”.


Prendendo sulle spalle il pubblico, il “gabbiano Patti” ha dato un
tempo di volo a ognuno: a sé quello dell’immutato ardore, ai meno
giovani quello di un’asciutta, ancor creativa,  nostalgia (basta
crederci, come Patti Smith), ai più giovani quello inesauribile della
scoperta. A tutti quello della bellezza di restare umani nel volo
della vita che rimane, in fondo, un volo di notte a luci spente;
acceso solo, se si ha fortuna, seguendo la rotta del destino, da scie
poetiche. Le scie di Patti Smith.


Proprio sulle ali di “Wing”, il primo brano eseguito insieme agli
storici “compagni d’arme” Lanny Kaye (chitarra) e Tony Shanahan
(basso), a Seb Rochford (batteria) e con la figlia Jesse Smith alle
tastiere, è decollato il volo notturno di un’ora e mezza. Ha solcato
cieli purissimi seguendo le comete di “Redondo Beach”, “Ghost dance”,
“In my blakean year”, “Beds are burning”, “Beneath the Southern
Cross”, “Dream of life” (eseguito alla chitarra con il solo
accompagnamento della figlia Jesse, nell’intenso intreccio di un
lessico famigliare affidato soprattutto a note e sguardi). Ha
attraversato “Dancing barefoot”, “Pissing in a river”, “Gloria”
nutrendosi del loro turbolento andare dritti al dolore, dritti al
cuore, dritti all’essenza della vita: amore, prim’ancora di giustizia
e libertà. Perché senza che cos’ha senso? Perché senza come nasce il
minimo comune denominatore di “Because the night” e “People have the
power”? Attese dai fan come acqua nel deserto di una notte rovente,
hanno regalato a Taranto, sia pur per un tempo piccolo, il rango di
capitale del rock, insieme a   brani-tributo. Sembra sentirli ancora
vibrare: “I’m free” (Rolling Stones), “Walk on the wilde side” (Lou
Reed), “Can’t help falling in love” (Elvis Presley).


Sillabare l’alfabeto del rock, per una città complessa e difficile, è
stato facile. Perché c’era la poesia. E scrivono parole semplici i
poeti. Semplici e ispirate da un dio. Specie se riconoscono il loro
sangue, le loro ossa. Vicini o lontani. Leonida da Taranto, Patti
Smith. C’era una terra remota, di un remoto sud di santi e diavoli.
Patti – ecco l’appuntamento col destino, la risposta a un profondo
perché – la cantò senza saperlo nell’orrore della fabbrica alienante e
distruttrice. Era il suo primo disco, il lato B di “Hey Joe”. Era
“Piss factory”. Si riprometteva di non tornare mai più la giovane
operaia  nella fabbrica che brucia, che trasforma tutto in deserto,
che costringe gli scolari a non andare a scuola o sbattere le gambe
sotto gli stretti banchi di ancor più strette stanze di città, pezzo
dopo pezzo divorate dalle fauci dell’industria. Risentitela quella
canzone vero leitmotiv nascosto del concerto di Taranto. Lì Patti
Smith si dava appuntamento con la città  quasi 50 anni dopo, invocando
libertà e bellezza da operaia per la città operaia. Così lontana, così
vicina.


La poetessa ha “benedetto”  questo pezzo di blu e di ruggine sospeso
tra cielo e indicibile. Una benedizione sotto la “Croce del Sud”
(Beneath the Southern Cross), la  canzone che anni fa Patti Smith
dedicò, durante un concerto, al poeta Roberto Bolaño i cui versi di
una poesia sembrano rimandare a Patti e a Taranto, al loro vincolo
ormai indissolubile di viandanti che si sono incontrati per dirsi
addio, restando nel sangue l’una dell’altra. Un matrimonio sul mare,
in una notte di Sahara, spalle girate al profitto assassino, le parole
del poeta sudamericano come testamento: “E tu non puoi nemmeno
ricordare dove si trovava la ferita, i volti che una volta amasti, la
donna che ti salvò la vita”.

(Gazzetta del Mezzogiorno, 11 giugno 2019)

(Le foto del concerto di Patti Smith a Taranto sono di Massimo Todaro)