Fulvio Colucci
(Gazzetta del Mezzogiorno, 7/7/2019)

Fu un’estate calda quella del 1919 a Taranto. Non solo per le temperature o per gli effetti sugli uomini, appena smobilitati dal vittorioso esercito del Piave, delle dannunziane vesti di voil e chiffon. Fasciavano i corpi femminili, seducenti come le «nere pupille velate di voluttà» da cui fu stregato Tommaso Fiore durante il suo viaggio-reportage commissionato da Piero Gobetti per “La Rivoluzione liberale”.
Cento anni fa, tra il 6 e il 9 luglio, si vissero quattro giornate sconvolgenti: le «Quattro giornate di Taranto» che mai nessuno storico ha voluto definire così. Chi le ricorda? Quei fatti, la loro memoria, restano sepolti in alcuni libri (dormono sulla collina del silenzio come tanti, troppi, capitoli più o meno recenti della storia locale). Rispolverarli, tuttavia, è utile per una serie di ragioni legate al presente, se solo pensiamo al libro di Antonio Scurati: “M – Il figlio del secolo” (Bompiani, 24 euro) recente vincitore del Premio Strega in cui si narra l’ascesa di Mussolini proprio partendo dal 1919, dalla fondazione dei Fasci di Combattimento (i tarantini furono protagonisti: allo storico evento partecipò Mario Carli in rappresentanza degli studenti del liceo “Archita”).
Di «diciannovismo», definito dal “Grande dizionario italiano” Hoepli l’«insieme dei fenomeni politici e sociali che caratterizzarono gli anni successivi alla Prima Guerra mondiale, specialmente in riferimento alla nascita del fascismo», si è molto parlato negli ultimi tempi.
In un articolo apparso a gennaio su “La lettura”, inserto del Corriere della Sera, lo scrittore Manlio Graziano ha voluto ridefinire e aggiornare i confini del “diciannovismo”, termine usato dal leader storico del socialismo italiano Pietro Nenni per ripubblicare negli anni ‘60 un libro del 1930 (il titolo originario era “Storia di quattro anni”). Graziano ha scritto: «La negazione della realtà e la ricerca di capri espiatori sono tratti del populismo di oggi che ricordano il clima italiano del 1919 – descritto da Nenni – che fu la culla del fascismo».
Le «Quattro giornate di Taranto» del 1919 sono un esempio storico formidabile di quel clima. Val la pena rispolverarle. Perché Taranto ha più che mai bisogno di una memoria condivisa con il resto del Paese (che non sia solo acciaio). Taranto, come l’Italia, hanno bisogno di memoria per capire il presente.
Anzitutto cosa accadde tra il 6 e il 9 luglio del 1919? Quali vicende costellarono quei giorni, quelle ore, drammatiche? Abbiamo provato a ricostruire i fatti attraverso le parole di tre storici: Giacinto Peluso, Giovanni Acquaviva e Roberto Nistri grazie a tre opere cui, interamente o in parte, hanno dato il loro contributo: «La storia di Taranto» (Scorpione Editrice), «Il ventennio fascista a Taranto» (Edizioni Archita), «Taranto da una guerra all’altra» (Mandese Editore). Le letture presentano alcune diversità. Più annalistiche quelle di Peluso e Acquaviva; più socio-economica quella di Nistri. Tutt’ e tre corredate da robusta storiografia.
Peluso affida a un articolo apparso in quei giorni sulla “Voce del Popolo”, il giornale dei fratelli Rizzo, la definizione dei fatti del ‘19. La “Voce” parlò di «insurrezione», spiegando: «Fu diretta e favorita dalle organizzazioni sovversive, per finalità politiche anticostituzionali, ma aveva un sostrato economico ed un carattere di protesta, il cui fondamento nessuno può negare».
«Per la sua parte, Taranto contribuisce con il magma umano e sociale che si ritrova al calderone italico del 1919». Chi scrive è Giovanni Acquaviva il quale più degli altri dà l’idea di quella «negazione della realtà» e di quella «ricerca del capro espiatorio» che Graziano ha definito come il brodo di coltura delle tensioni “diciannoviste” madri del fascismo.
Non è un caso che Acquaviva nel suo «Il ventennio fascista a Taranto» scrive del riflesso condizionato che accompagnò le «Quattro giornate»: a poche ore di distanza dallo spegnersi degli ultimi fuochi della rivolta, il 14 luglio, si ha «una prima reazione all’ondata sovversiva (i cittadini protestavano per il caro-viveri, ndr)». «Su iniziativa – prosegue Acquaviva – dell’Associazione Pro Invalidi e Mutilati di Guerra e dell’Assocfiazione Combattenti» nasce un «Fascio d’ordine… che possa creare una barriera all’invadente marea del bolscevismo e teppismo”.
Chi erano questi bolscevichi, questi teppisti? Acquaviva spiega che Taranto, all’epoca «ha centodiecimila abitanti, più di diecimila famiglie vivono con il lavoro dei suoi uomini (6000 in arsenale, 3000 al Cantiere Tosi, 1000 al Cantiere Salerni); seicento famiglie piangono gli altrettanti caduti nella guerra testè terminata, in ottomila si sono già iscritti alla Camera del Lavoro ed ai Circoli sovversivi nei quali si mescolano problemi di lavoro e aspirazioni socialiste; con l’animo rivolto alla rivoluzione bolscevica (scoppiata in Russia nel 1917, ndr), dalla quale giungono soltanto notizie positive come di una collettiva catarsi sociale». Lo storico e giornalista rammenta «cortei di accesi socialisti» che attraversano le vie della città «saccheggiando e distruggendo negozi; si erigono barricate nella città vecchia, al canto programmatico di “Bandiera Rossa”. Questa la sintesi dei giorni del luglio 1919 al netto dei dileggi delle offese, degli sputi e degli insulti sui «reduci di guerra» tra i quali, aggiunge Acquaviva, «si fa strada un umanissimo sentimento di reazione che sanno (o immaginano) condiviso condiviso da tanta parte della gente contraria ad ogni forma di sovversione». Capri espiatori e negazione della realtà.
È però Roberto Nistri a entrare nelle piaghe sanguinanti delle «Quattro giornate». La premessa: il 5 luglio 1919, l’«anarcosindacalista» Innocente Cicala, secondo la definizione di Nistri, espulso nel 1914 (come Mussolini) dal Partito socialista, «proclama lo sciopero generale». Lo fa senza avvertire i socialisti, ricorda Nistri evidenziando le ragioni della protesta: «Per imporre il ribasso dei prezzi al 50 per cento». Allo sciopero aderiscono gli operai dei Cantieri Tosi e Salerni, i socialisti non restano a guardare.
«Nelle prime ore di domenica 6 luglio l’atmosfera è surriscaldata; gruppi di operai – prosegue Nistri – sotto la guida di Cicala impongono ai commercianti di aprire i negozi e vendere la merce a metà prezzo, avvengono tafferugli». I commercianti consegnano le chiavi dei magazzini alla Camera del Lavoro, contemporaneamente a quanto avviene, per esempio, a Torino. Alle 13,30 del 6 luglio «scatta la repressione poliziesca» bollata da Nistri come «imprevedibile e ingiustificabile». Scattano gli arresti di Cicala, di Voccoli (l’altro leader sindacale; i due erano in contrasto tra loro incarnando le due anime del socialismo), dei delegati delle Camere del Lavoro. «In via D’Aquino si verificano cariche sulla folla e arresti in massa. Il lunedì 7 luglio lo sciopero riesce compatto, ma gli arresti sono estesi» e a fine giornata arriveranno a 150. «Alle ore 21 i dimostranti assalgono – torna Nistri col suo teso, lucido, presente storico – un pattuglione (delle forze dell’ordine, ndr) in servizio in via Mazzini, vengono sparati i primi colpi di arma da fuoco. Per evitare il peggio le Camere del Lavoro dichiarano sospeso lo sciopero». Si vive però martedì 8 luglio 1919 l’ora più lunga e crudele delle «Quattro giornate di Taranto». A guidarci ancora Nistri: «Nei vicoli della città vecchia, dopo l’uccisione di un popolano agli inizi di via Garibaldi, infuria la guerriglia: sul terreno rimangono quattro morti e otto feriti da arma da fuoco tra i civili, e dieci feriti più o meno gravi fra i carabinieri e le guardie di PS. La battaglia si sposta nel quartiere Borgo: i dimostranti tentano l’assalto alle carceri per liberare i detenuti, e la polizia spara all’impazzata, facendo vittime come alcuni ragazzini seduti sui marciapiedi e un anziano pensionato, colpito da alcuni proiettili che attraversavano la finestra chiusa della sua abitazione».
«A questo punto – termina il racconto dello storico Roberto Nistri – il sottoprefetto Lugarini che ha scatenato il cataclisma per non aver voluto cedere sulla scarcerazione dei sindacalisti, affida completamente il servizio di ordine pubblico al Comando M. M. (il Dipartimento della Marina Militare, ndr) e all’ammiraglio Acton non è difficile far ritornare subito la calma: gli basta togliere dalla circolazione i reparti di PS e di carabinieri e far circolare distaccamenti di marinai con compiti di pacificazione. Lo sciopero continua comunque compatto fino alla piena liberazione di tutti i detenuti, cosa che avviene il mercoledì 9 luglio».
Le «Quattro giornate di Taranto» sono pagina viva della storia. Comprendono tutti gli avvenimenti del “secolo breve”, il ‘900: la guerra, gli arricchimenti illeciti, lo sfruttamento, la lotta di classe, la reazione, la sconfitta dei diritti attraverso la violenza. E le due ombre: la negazione della realtà e la ricerca del capro espiatorio tornate ad assillare il presente. Ombre che solo una memoria viva, condivisa, consapevole, può scacciare ancora.